Attualità

“Refusenik” di Miriam Mezzera

Miriam Mezzera vive da oltre due anni a Gerusalemme, dove lavora per ATS pro Terra Sancta, la ONG della Custodia Francescana di Terra Santa. Immersa in un contesto difficile, ma allo stesso tempo estremamente ricco e affascinante, ogni tanto tenta di scrivere e fotografare quello che accade intorno a lei. Per cercare di comprendere più a fondo una realtà sfaccettata e complessa, per dar voce a chi ne ha troppo poca, o per il semplice piacere di far emergere aspetti meno conosciuti di un luogo che troppo spesso occupa solo le cronache o le pagine politiche dei giornali.

(articolo pubblicato sulla rivista Terrasanta, link: http://www.terrasanta.net/ ). Dopo dieci sentenze consecutive e 177 giorni di prigione, Natan Blanc è ora libero, e senza uniforme. Il ventenne di Haifa, dopo sei mesi passati tra il tribunale militare e la cella, ha ottenuto – anche grazie a una forte mobilitazione pubblica – di prestare servizio civile come obiettore anziché servire nell’esercito. La sua vicenda era iniziata nei giorni della crisi di Gaza, nel novembre 2012. Proprio mentre 75.000 riservisti venivano richiamati da tutto il paese e anche dall’estero per supportare le operazioni militari, faceva notizia la decisione di questo giovane, che preferiva la prigione all’arruolamento nell’esercito. La scelta di Natan riaccendeva i riflettori su un movimento interno alla società civile israeliana, che in questi anni ha visto mettersi in gioco molti giovani come lui. Si chiamano Shministim, o Refusenik, e sono i giovani israeliani che rifiutano di servire nell’esercito perché contrari alla politica di occupazione dei Territori palestinesi che esso persegue.

In un paese dove il servizio militare è obbligatorio e dura tre anni per gli uomini e quasi due per le donne, sono poche le vie di scampo. Chi non intende prestare servizio, ha comunque dalla sua parte qualche possibilità: inadeguatezza fisica, malattia mentale (reale o inscenata) e poco altro; anche gli ebrei ortodossi continuano a trovare vie traverse per non arruolarsi, nonostante si discute da mesi su una legge che sancisca l’obbligo anche per loro. Casi eccezionali, e molto discussi, sono poi i drusi e gli arabi israeliani. Al di là di questi, chi si rifiuta per motivi politici di svolgere l’obbligo di leva, va incontro al carcere. Periodi che vanno da 21 a 28 giorni, replicabili però all’infinito. E così Natan Blanc è arrivato a dieci, prima di essere rilasciato. In un video girato dal giovane dopo il suo quarto periodo di carcere, Natan spiega: “la ragione principale che mi ha spinto a compiere questa scelta è stata la sensazione che il nostro paese sta andando in una direzione di non-democrazia, di ineguaglianza civile tra noi e i palestinesi. Spesso si sente dire che è una situazione temporanea, che l’occupazione finirà, che presto avremo due stati o una soluzione diversa e democratica. Ma oggi è chiaro a tutti che non si sta andando verso un miglioramento, almeno non in un futuro prossimo”.

Cosa significa l’obiezione “per motivi politici”? Spesso, nel corso delle operazioni svolte all’interno della West Bank o a Gaza, i giovani soldati si rendono conto che qualcosa, nella narrazione che li accompagna da quando sono bambini, non funziona. Iniziano a percepire le forti contraddizioni tra ciò che vengono mandati a fare e le motivazioni, o le giustificazioni, che l’esercito dà ai loro gesti. Questi giovani iniziano così a sentire il bisogno di sganciarsi da un ingranaggio che inevitabilmente li risucchia, ma di cui non condividono le scelte. Si cercano, si organizzano, si supportano. Nascono associazioni, movimenti e siti, per raccogliere le loro testimonianze e, forse, incoraggiare altri a fare lo stesso.

“Ci è sempre stato detto che il ruolo dell’esercito israeliano è quello di difendere i cittadini di Israele, quando in realtà la sicurezza non ha niente a che vedere con l’occupazione e l’apartheid – si legge nella lettera di rifiuto che Alon Gurman ha presentato ai suoi superiori nell’ aprile 2012. Il diciannovenne di Tel Aviv continua la sua dichiarazione, consapevole di ciò a cui va incontro ma non per questo meno convinto della sua scelta: “L’esercito israeliano agisce in modo da rendere invivibile la vita dei palestinesi, reprimere ogni forma di resistenza all’ occupazione e perpetrare un clima di terrore, utilizzando una estrema violenza nei confronti della popolazione civile, sostenendo un sistema di “giustizia” oppressivo, un assedio a Gaza, vaste operazioni militari e demolizioni arbitrarie di case”. Il testo integrale della lettera si trova sul sito di December18th, uno dei movimenti nati per sostenere in modo attivo coloro che scelgono di fare obiezione di coscienza.

Il rifiuto esplicito della politica di occupazione portata avanti dall’esercito è dunque il vero motivo dell’incarcerazione di questi giovani. Tanto che è previsto, nel regolamento giuridico, uno specifico caso di esenzione dalla leva militare per motivi di “pacifismo puro e incondizionato”. Tali casi sono discussi da una commissione apposita, che ha l’ordine da parte della Suprema Corte israeliana di non considerare come idonei quelli che definisce “obiettori selettivi”. In pratica – afferma Ruth Hiller di New Profile, un altro dei movimenti che si occupano di refunesik – l’unico tipo di obiezione di coscienza che può talvolta essere riconosciuta è quella del pacifismo assoluto. La nostra esperienza ci ha dimostrato che se un giovane acconsente, anche una volta soltanto, a svolgere una qualsiasi funzione militare o di polizia, automaticamente gli verrà precluso lo status di obiettore. Un pacifista che invece parla apertamente della sua visione politica, specialmente riguardo al conflitto israelo-palestinese, non riceverà mai il riconoscimento da parte della Commissione”.

La strada del pacifismo assoluto è tentata da molti, almeno inizialmente. Come racconta Noam Gur, 18 anni, due sentenze e due periodi di carcere consecutivi alle spalle: “Ho provato inizialmente a ottenere lo status di pacifista. L’esercito ha rifiutato la mia causa perchè la mia dichiarazione era “troppo politica e non totalmente pacifista”. Da parte mia, ho voluto restare coerente, non venir meno alle mie convinzioni, e allo stesso tempo mettere in atto un’azione politica. Rifiutare mi è sembrato il miglior modo per farlo”.

La visione politica di questi giovani, che deriva dalla loro esperienza diretta, da ciò che hanno visto e che spesso hanno fatto, è dunque fondamentale per capire la loro scelta. Nelle testimonianze che si leggono sui siti dei Refusenik, si parla senza mezzi termini di soprusi nei confronti dei palestinesi, furti e distruzioni di proprietà, umiliazioni inflitte giornalmente e repressioni violente del legittimo diritto alla resistenza. “Tutto questo è portato avanti con orgoglio e nella più totale cecità dai soldati di leva. L’ educazione impregnata di razzismo nella quale cresciamo, e in generale il nazionalismo estremo che permea la società israeliana rendono difficile la scelta di un obiettore di coscienza”, si legge in un’altra testimonianza. Maya Wind e Netta Mishly, due ragazze che da alcuni anni girano gli Stati Uniti raccontando la loro esperienza nelle università, nelle sinagoghe, nelle chiese e nei community centers, indicano i “tre elementi dell’occupazione”: gli insediamenti, i check-point e il muro di separazione. “Gli insediamenti si trovano in punti strategici – afferma Netta Mishly durante gli incontri – e sono utilizzati per giustificare la presenza dell’esercito nella West Bank. I coloni, i check-point che li proteggono, il muro di separazione e i soldati che presidiano i posti di blocco sparsi ovunque hanno delle ragioni puramente economiche”. E tutto questo certamente, nella visione dei Refusenik, ostacola in maniera evidente il processo di pace e l’ideale della sicurezza che lo stesso esercito dovrebbe perseguire.

Molti all’interno della società civile israeliana li considerano dei deboli, dei traditori, o semplicemente dei furbastri che hanno trovato la scappatoia per poter andare all’università senza l’impiccio della leva militare. Anche se chiunque sa benissimo che fare obiezione di coscienza rende la vita di un giovane israeliano molto più difficile: “A qualsiasi colloquio di lavoro, una delle prime domande che ti fanno è sul periodo svolto nell’esercito, e quando vengono a sapere che sei un Refusenik, la maggior parte delle volte sei scartato a prescindere”.

Eppure, dalle parole decise, taglienti, di molti obiettori, il ritratto che ne esce è quello di giovani che invece credono fortemente di dover servire la società cui appartengono. Ma che non accettano di farlo attraverso un sistema improntato sulla violenza e sulla prevaricazione. Questo diventa la loro chiave di volta: è proprio per servire al meglio il loro Paese che i Refusenik scelgono di non prender parte, ed essere costretti ad appoggiare, una politica di occupazione che giudicano ingiusta nella logica e nei metodi. E se ne assumono le conseguenze: a volte il rifiuto della famiglia o l’isolamento nel gruppo di coetanei, quasi sempre il carcere.

Miriam Mezzera

Siti di riferimento:

http://www.newprofile.org/english/

http://www.whywerefuse.org/

http://december18th.org

Shministim 2010 facebook group

 

 

 

Tags

Related Articles

Lascia un commento

Close